Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 06 aprile 2024.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Efficace intervento ESDM nell’autismo prescolare grave in Italia. Rosaria Ferrara del Dipartimento di Anatomia e Istologia dell’Università La Sapienza di Roma e colleghi hanno adottato la metodologia Early Start Denver Model in un bambino di 36 mesi, con un profilo di grave disturbo dello spettro dell’autismo, ottenendo buoni risultati. L’esperienza ha mostrato l’evidenza di miglioramenti significativi nonostante un basso livello di trattamento e la totale versatilità e adattabilità del Denver Model al contesto italiano. [Cfr. Italian Journal of Pediatrics 50 (1): 60, Apr 4, 2024].

 

Ponti proteici di messaggio retrogrado risolvono un enigma sinaptico di lunga data. È la precisione nanometrica con cui il sito di rilascio di un neurotrasmettitore si accoppia con il recettore post-sinaptico, pertanto non si riusciva a comprendere in che modo i neuroni che segnalano con più di un trasmettitore (contravvenendo al dogma di Dale) riescono a trovare, in corrispondenza delle zone attive di rilascio vescicolare, il recettore giusto. Naturalmente sono stati indagati i meccanismi di regolazione dell’espressione dei recettori e altri processi molecolari, per accertare il modo in cui la corrispondenza è sempre perfetta in condizioni fisiologiche, ma finora senza successo. Swetha K. Godavarthi e colleghi hanno scoperto che i recettori post-sinaptici sono necessari e sufficienti per ottenere la stabilizzazione dei loro specifici trasmettitori nell’area presinaptica corrispondente. I recettori costituiscono un segnale retrogrado fisicamente mediato da ponti di proteine che includono molecole di adesione sinaptica. Tali ponti trans-sinaptici specificano l’identità chimica del neuromediatore. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2318041121, 2024].

 

Depressione Maggiore scambiata per Demenza Fronto-Temporale alla PET. Riportiamo questo caso verificatosi in Norvegia per avvertire i clinici del rischio che si corre anche in Italia, se non si tiene conto dell’ipometabolismo cerebrale associato alla depressione, che può alla Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) produrre un quadro simile a quello causato dalla Degenerazione Lobare Fronto-Temporale, responsabile di una demenza seconda per frequenza e gravità alla malattia di Alzheimer. L’errore diagnostico alla PET è stato riportato e discusso da Martin Bystad e colleghi. [Cfr. Journal of The Royal Society Open – AOP doi: 10.1177/20542704241241113, April 2, 2024].

 

La complessina ha una doppia funzione sinaptica nel priming delle vescicole e nella fusione. La complessina, regolatrice del complesso-SNARE (Cplx), è espressa virtualmente in tutte le sinapsi chimiche. Il suo ruolo di regolatrice positiva del rilascio evocato di trasmettitori è indiscusso, ma la sua funzione nel rilascio spontaneo è discussa e controversa. Francisco José Lopez-Murcia e colleghi hanno definito due funzioni sinaptiche per la complessina: 1) proteina checkoint nel priming vescicolare; 2) promotrice della fusione vescicolare. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2320505121, 2024].

 

Perché i delfini attaccano e mordono i piccoli di lamantino? Un comportamento ritenuto impossibile 20 anni fa e divenuto sempre più frequente e documentato dal 2015. Già uno studio del gennaio 2024 (PLoS One 10th Jan.) faceva il punto delle osservazioni documentate di questo presunto cambiamento comportamentale, ma ora il problema ha attratto l’attenzione della comunità neuroscientifica. Gli attacchi sono documentati e pubblicati dal 1999 al 2020. I più recenti circolano come video ripresi nelle acque del Belize, un piccolo stato tra Messico, Guatemala e Honduras, che si affaccia sul Mar dei Caraibi.

I lamantini fanno parte dell’Ordine degli erbivori acquatici Sirenia, così denominato per una credenza popolare. Le sirene erano nella mitologia greca delle creature metà donna e metà uccello; le leggende di sirene metà donna e metà pesce, senza gambe con la coda, sembra siano nate dall’esperienza dei canti dei lamantini che, come i delfini, erano comuni nei nostri mari[1]. Femmine in acqua, galleggianti con la testa e le spalle emerse, con i piccoli vicini, impegnate a produrre i suggestivi richiami vocali sembra abbiano colpito la fantasia dei marinai. Accanto al più noto lamantino dei Caraibi o manato comune (Trichecus manatus), nell’Ordine dei Sirenia vi è anche il lamantino delle Amazzoni (Trichecus inunguis), ovvero la specie più piccola per dimensioni adattata alla vita fluviale, e il lamantino del Senegal (Trichecus senegalensis). I piccoli nascono dopo una gestazione di 12 mesi e rimangono a lungo con gli adulti. Le vittime dei delfini sono i piccoli rimasti orfani, ma anche giovani più grandi e con la madre nei pressi.

Il comportamento rimane misterioso: Eric Angel Ramos del FINS, in una email indirizzata a Live Science spiega che potrebbe trattarsi di una manifestazione di aggressività simile a quelle osservate fra co-specifici nei delfini, escludendo categoricamente che i delfini possano voler mangiare i lamantini. In tutti i video è evidente che sono sempre i delfini ad attaccare spontaneamente, senza alcuna provocazione, i piccoli erbivori acquatici. In alcuni casi si vedono i cetacei molestare, speronare e poi mordere gli indifesi; in altri, li si vede impegnarsi per separarli dalle loro madri. Jeremy Kiszka, professore di scienze biologiche alla Florida International University, è convinto che i delfini vogliano uccidere quei piccoli e, sebbene non fornisca una ragione, dice che, a dispetto della buona immagine di cui godono forse anche per il loro aspetto, non sono nuovi a comportamenti aggressivi, sia nei confronti dei propri piccoli che di quelli di altre specie marine.

Sicuramente, i delfini attaccano e uccidono il marsuino o focena comune, ossia il più piccolo dei cetacei odontoceti, chiamato in inglese harbour porpoise, cioè “focena dei porti”, e si può ritenere che questo istinto stia virando verso bersagli simili solo alla lontana, come i piccoli di lamantino.

Un fatto è certo, i biologi marini esperti di comportamento dei cetacei escludono che si tratti di qualcosa di simile a quanto è accaduto per le orche (Orcinus orca) e di cui ci siamo occupati di recente (Note e Notizie 23-03-24 Notule: Una popolazione di orche con nuovi comportamenti è stata individuata nel Pacifico Nordorientale) e menzionato trattando dell’aumento degli attacchi degli squali all’uomo (Note e Notizie 17-02-24 Notule: Aumentano gli attacchi mortali degli squali all’uomo: cambiamento comportamentale?), e in precedenza, quando abbiamo riportato dei nuovi comportamenti sviluppati dalle orche in qualità di predatori marini apicali (v. Note e Notizie 04-11-23 Notule: Orribili e stupefacenti: i nuovi comportamenti delle Orche fanno riflettere).

Le aggressioni ai lamantini aspettano ancora una spiegazione, anche se non si può escludere che siano sempre esistite come fatto sporadico, che la biologia marina del passato non era in grado di rilevare e documentare come si può fare oggi. [Fonti: PLoS One, Live Science, Aquatic Mammals, Discussions BM&L-International, aprile 2024]

 

La storia di Ione, capostipite della stirpe ionica in Atene, ci dà un insegnamento. Si prosegue nell’esercizio di riconoscere fatti reali all’origine dei miti, questa volta analizzando una trama della biografia di Ione, figlio di Creusa e nipote di Eretteo, nella sua versione più nota, ossia quella euripidea.

Euripide nella tragedia Ione rappresenta l’incredibile storia del capostipite eponimo della stirpe degli Ioni. L’aspetto interessante della vicenda è che lo stesso Euripide, se si eccettua la paternità del dio Apollo che avrebbe sedotto Creusa, non propone una trama mitica ma cerca di ricostruire fatti reali dalle testimonianze tramandate e, per la parte affidata alla sua arte narrativa, deduce o crea ragioni e comportamenti plausibili nel contesto umano e culturale di quel tempo.

Senza i fantasiosi prodigi degli dei e le loro gesta magico-simboliche, è più facile per noi avvicinarci agli accadimenti veri o verosimili che hanno ispirato il testo della tragedia, spiegando il riferimento al dio delle arti.

Apollo seduce Creusa, figlia del re Eretteo e moglie di Xuto, e dalla loro relazione nasce un figlio, Ione, che la donna decide di esporre portandolo in una grotta sottostante l’Acropoli, deputata all’abbandono di figli indesiderati e segreti, dove una sacerdotessa del dio, o Pizia, poteva trovarlo per prestargli le cure o, a sua volta, affidarlo ad altri. Il racconto vuole che Apollo chiese a Ermes di condurre il bambino a Delfi, in un luogo detto onfalo (omphalòs = ombelico) perché ritenuto l’ombelico del mondo, dove una pietra con lo stesso nome per metonimia di senso indica la sede esatta del suo oracolo; qui la Pizia lo avrebbe consacrato al suo servizio. Questa parte mitica della trama biografica può facilmente essere spiegata: con ogni probabilità, l’affidamento presso il santuario-oracolo di Apollo a Delfi ha fatto nascere la leggenda del dio che seduce la madre. Infatti, quando i nuovi cittadini dovevano essere iscritti al demo, organismo dotato di un’anagrafe, si dovevano indicare maternità e paternità, che in questo caso corrispondevano a Creusa, che l’aveva dichiarata nella consegna presso la grotta, e Apollo, che valeva per tutti gli esposti affidati a sacerdoti e sacerdotesse devoti a quel dio. Infatti, gli officianti i riti apollinei avevano talvolta un ruolo simile a quello svolto sistematicamente dai religiosi in epoca cristiana, quando il modello della “ruota degli innocenti” che permetteva di consegnare in anonimato neonati e lattanti, ha svolto per secoli una funzione umana e sociale. In ogni caso, si comprendono le ragioni della mitizzazione: uno che sarebbe diventato re, e per parte di madre era nipote del sesto re di Atene Eretteo, non poteva essere celebrato come “trovatello di padre ignoto”.

Xuto e Creusa nel corso degli anni, pur desiderando avere figli, erano rimasti una coppia sterile che soffriva molto per questa ragione. Decisero allora, secondo il costume ateniese, di recarsi a chiedere aiuto al santuario-oracolo di Delfi, dove il bambino ormai diventato adulto era stato consacrato. La consultazione della sacerdotessa con funzioni di oracolo, chiamata Pizia dall’attributo di Apollo, “Pizio” in quanto vincitore di Pitone, ebbe un esito sorprendente: la comunicazione sibillina rivolta a Xuto diceva che il primo uomo che avrebbe incontrato appena uscito dal tempio sarebbe stato suo figlio. Xuto uscì e incontrò, senza saperlo, il figlio di Creusa abbandonato tanti anni prima; per tenere fede all’oracolo lo adottò e gli diede nome “Ione”, perché lo aveva incontrato sulla via e, in greco, ion significa “colui che va”.

La cosa parve strana a tutti: un vaticinio rivolto solo al padre, che gli annuncia un adulto da adottare già pronto fuori dal santuario. Molti ne dedussero che doveva trattarsi di un figlio naturale di Xuto, che aveva trovato questo escamotage per poterlo riconoscere senza rivelare alla moglie la reale identità dell’uomo; l’insieme della gente – equivalente al coro della tragedia – certa della veridicità di questa illazione, decise che si sarebbe dovuto comunicare il fatto a Creusa con molto tatto e discrezione.

Intanto, senza alcuna prudenza e delicatezza, un’anziana schiava e alcune donne insinuarono dei sospetti nella mente di Creusa; in particolare, adombrarono la possibilità che Xuto volesse sostituire sul trono di Atene la casata di Eretteo e Creusa con la sua, facendo ascendere al trono un suo figlio illegittimo. Credendo a questa assoluta falsità, Creusa decise di uccidere Ione, non sapendo che era suo figlio.

Xuto diede una grande festa in onore di Ione, così da presentarlo nel ruolo di figlio in società; Creusa decise di approfittare della circostanza per ucciderlo in segreto, avvelenandolo: al momento delle libagioni mise del veleno nel vino destinato al giovane. Ma, a questo punto, si verificò un fatto interpretato dai presenti e dallo stesso Euripide come un intervento di Apollo: Ione, sentendo una schiava pronunciare una frase di malaugurio, si insospettì e non bevve, poi ordinò di ripetere la mescita e vide il vino traboccare dalla sua coppa e finire in terra; subito si avvicinò al vino versato una delle colombe consacrate ad Apollo, lo bevve e morì. Fu evidente a tutti i presenti che era stata Creusa a cercare di avvelenarlo; allora Ione decise a sua volta di uccidere la donna che non sapeva essere sua madre.

Nel momento in cui sta per commettere il matricidio, c’è un colpo di scena finale: la Pizia che aveva allevato Ione, informata di tutto, fa irruzione e si pone tra i due, recando con sé le fasce con cui Creusa aveva avvolto il neonato, quale prova dell’identità del giovane: commossi, madre e figlio si ritrovano, in un lieto fine sorprendente per una tragedia.

Proprio questa felice conclusione della vicenda, che tradisce le regole di quel genere del teatro filosofico, testimonia l’origine della trama da fatti reali accaduti in seno alla famiglia regnante in Atene. Euripide ha sicuramente una traccia salda e definita della tradizione di questa storia e fa ricorso alla dimensione divino-magica della mitologia solo per colmare due vuoti di conoscenza: l’identità dell’uomo col quale Creusa aveva concepito Ione e il modo in cui il giovane scopre che lo si vuole avvelenare.

Questa riflessione ci dà un insegnamento, che è in realtà una vecchia lezione filosofica che merita di essere ripassata di tanto in tanto: dove c’è conoscenza la forza della realtà dissolve il mito.

[Fonte: Seminario Permanente sull’Arte del Vivere BM&L-Italia, aprile 2024].

 

È giusto che il progresso delle conoscenze neuroscientifiche cambi la bioetica? In un incontro in cui si discuteva dei contributi della nostra società scientifica alla conoscenza medica, è stato considerato l’articolo Esce dal coma dopo 27 anni e riapre questioni mai realmente risolte (in Note e Notizie 28-09-19) e, nella discussione, si è affrontato il caso presentato in quello stesso periodo nell’articolo La riattivazione di cervelli morti mette in crisi la morte cerebrale (in Note e Notizie 21-09-19) in cui, prendendo le mosse dall’esperimento col nuovo sistema di riperfusione “BrainEx” (da ex vivo) che aveva riattivato 32 cervelli porcini a notevole distanza dalla morte e fino a quel momento ritenuti ad uno stadio in cui è impossibile ristabilire le funzioni vitali, si sviluppava una riflessione sull’impatto di quello studio sulla realtà neuroscientifica e bioetica.

In questo incontro, a distanza di quasi cinque anni, mentre si continua a lavorare al miglioramento dei sistemi di riperfusione, è stata riportata in discussione la questione dei criteri adottati per definire morto un cervello. Si riporta, qui di seguito, un’efficace sintesi introduttiva al problema tratta dall’articolo citato:

“Non esiste un marker bioumorale che indichi l’evoluzione del coma in uno stato irreversibile che precede la morte, e allora si deve ricorrere alla diagnosi clinica di quella condizione che la prudenza dei neurologi del secolo scorso aveva denominato in francese coma depassé, ossia “al di là del coma”, e che, seguendo una Commissione della Harvard Medical School, dal 1968 si chiama morte cerebrale[2]. Tale stato fu definito per la prima volta da R. D. Adams, membro della commissione, sulla base della totale assenza di reazione a qualsiasi modo di stimolazione, arresto della respirazione e mancanza di attività elettrica cerebrale per 24 ore. Gli studi seguenti hanno portato l’American Academy of Neurology a definire specifiche linee-guida per la diagnosi di morte cerebrale nel 1995, e ad aggiornarle nel 2010. L’equiparazione della morte cerebrale alla morte della persona e il fatto che il termine della funzione del cervello possa precedere quello del cuore hanno sollevato problemi etici, medici, religiosi, filosofici, culturali, legali e sociali non ancora risolti, in quanto concepiti secondo differenti angolazioni prospettiche, spesso fra loro inconciliabili. Se si pensa che il principale fondamento di questa equiparazione è costituito dall’inevitabilità della morte dopo la cessazione funzionale dell’encefalo, nonostante vi siano eccezioni di persone con lunga sopravvivenza, si comprende quanto la materia possa essere delicata e controversa.

L’irreversibilità dello stato, accanto alla cessazione delle funzioni del cervello e del tronco encefalico, è il requisito fondamentale per la diagnosi di morte cerebrale, pertanto l’apparente ripristino – sia pur parziale – di funzioni in cellule nervose del cervello di maiale suscita un grande interesse e ha promosso discussioni anche in seno alla nostra società scientifica”[3].

Enunciate queste premesse, la discussione non si è molto discostata dalla traccia del dibattito del 2019:

“Alcuni nostri soci hanno osservato che, se i tempi di sviluppo della necrosi sono più lunghi di quanto si sia finora ritenuto e di durata differente fra le varie popolazioni neuroniche del cervello, andrebbero attentamente studiati nelle varie specie, anche per cercare di comprendere se le cellule più resistenti possano estendere l’intervallo temporale della reversibilità. Altri hanno affermato che si è dato un peso eccessivo a questi risultati: la possibilità di riattivazione parziale di cellule di altri organi dopo la morte è nota da tempo, ma in questo caso, trattandosi del cervello, si è lasciato spazio a ipotesi suggestive e, ad avviso di questi soci, del tutto infondate”[4].

Solo quest’ultimo giudizio, alla luce degli studi più recenti, non ha trovato sostenitori in questa occasione. Infatti, si è osservato che i neuroni corticali, e i neuroni cerebrali in generale, sono le cellule più sensibili all’ipossia e, dunque, la nota riattivazione parziale di elementi cellulari di altri organi è questione ben diversa dallo scoprire che molti tipi di neuroni, invece di andare in necrosi dopo qualche minuto, possono essere riattivati dopo ore dalla morte dell’animale, come nel caso dei cervelli suini raccolti in un macello e studiati da Nenad Sestan e colleghi. D’altra parte, già Giovanni Rossi, autore dell’articolo del 2019 scriveva:

“Pur rispettando il punto di vista di questi colleghi scettici, chi scrive non condivide il giudizio di ‘infondate’ per le ipotesi che considerano forme di riattivazione, quale questa ottenuta sul cervello dei maiali, come un possibile innesco per il recupero di attività dei sistemi globali dell’encefalo. È vero che Nenad Sestan e colleghi non hanno rilevato alcun segno di coscienza, ossia della funzione del cervello dei mammiferi che corrisponde alla cosiddetta coscienza primaria umana, ma è pur vero che non era questo lo scopo dei ricercatori che, nella soluzione concepita come uno speciale plasma sintetico, hanno incluso composti che possono addirittura bloccare l’attività neurale necessaria per la fisiologia della coscienza. Inoltre, Stephen Latham, direttore del Centro Interdisciplinare di Bioetica dell’Università di Yale e coautore dello studio, ha precisato che se fosse apparso qualsiasi tipo di attività elettrica corticale organizzata lo avrebbero immediatamente soppresso con l’anestesia e abbassando la temperatura dei tessuti.

Rachael Rettner, senior writer di Live Science, ha raccolto l’opinione indipendente di Neel Singhal, assistant professor di neurologia presso l’Università della California a San Francisco, che ha dichiarato di considerare lo studio stimolante per le questioni etiche che solleva e, in particolare, ha osservato che, se è possibile un qualche ripristino di attività del cervello, dovremo ‘cambiare la nostra definizione di morte cerebrale’[5]”.

Contestualmente allo studio, Nature ha pubblicato un commento di Nita Farahany della Duke University e colleghi nel quale, attribuendo notevole valore ai processi biologici riattivati da Sestan, Vrselja e colleghi nei neuroni dei cervelli porcini morti, si rileva un mutamento dell’orizzonte bioetico convenzionale e si richiede l’elaborazione di nuove linee-guida per le condotte cliniche, perché questi risultati “pongono in questione assunti di vecchia data circa ciò che rende vivo un animale o un essere umano”[6].

Questi problemi sono stati a lungo discussi e dibattuti dai nostri soci, che si sono impegnati a continuare lo studio dell’argomento. [Fonte: Seminario Permanente sull’Arte del Vivere BM&L-Italia, aprile 2024].

 

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[1] Ora è necessario andare in Florida, dove nei tratti di mare antistanti spiagge protette da vegetazione è facile avvistare lamantini e, in particolari ore del giorno, sentire i loro canti.

[2] Beecher H. K., et al. A definition of irreversible coma: Report of the Committee of Harvard Medical School to examine the definition of brain death. JAMA 205: 85, 1968.

[3] Note e Notizie 21-09-19 La riattivazione di cervelli morti mette in crisi la morte cerebrale.

[4] Idem.

[5] Rettner R., Hours After Pigs’ Death, Scientists Restore Brain Cell Activity, (TdA). Live Science April 17, 2019.

[6] Farahany N. A., et al. Part-revived pig brains raise slew of ethical quandaries. Nature 568 (7752): 299-302, 2019.